Si prenota con lo smartphone, non è un taxi ma una vettura qualsiasi, la guida una persona comune e il prezzo della corsa viene stabilito dalla App. Se state pensando a Pop, il discusso servizio del colosso americano Uber, ci siete vicini, ma vi sbagliate: Uber Pop, infatti, venne dichiarato illegale da un tribunale milanese – dopo un corpo a corpo con i tassisti, non solo metaforico – nel 2015, pochissimi mesi dopo il suo esordio in Italia. E tuttavia, un po’ nel silenzio, qualche emulo cresce e prospera, indisturbato dai tribunali e per lo più ignorato dai media.
Il servizio al momento è presente solo a Milano ma, forte di un recente fundraising da 10 milioni di euro, è facile immaginare che siano in vista piani di ampliamento. Averne conferma, tuttavia, è impossibile: né i vertici della società in Francia né il country manager italiano Alessandro Desiante hanno accettato di parlare con Business Insider. Quest’ultimo ha preferito non rispondere a una serie di domande ricevute via email, rimandando a un sito internet in cui tuttavia non esiste alcun materiale informativo.
È più che plausibile, d’altronde, che Heetch cerchi di tenersi alla larga dai riflettori. Un po’ per evitare le pattuglie preposte al sequestro di auto che si ritiene forniscano illegalmente servizio di trasporto pubblico – a Milano ne esiste una nota come “Freccia 1” particolarmente agguerrita con gli operatori di mobilità on demand -, un po’ per evitare di acquisire troppa notorietà tra tassisti, giudici e affini, con il rischio di passare attraverso le stesse vicissitudini legali di Uber.
Nella tortuosa strada che l’economia digitale sta prendendo in Italia, e particolarmente il mondo nato come sharing e poi diventato per lo più on demand, le costanti infatti sono l’inconsistenza del legislatore, la confusione normativa e l’incapacità di monitorare i fenomeni, provando a governarli.
La prova evidente è la mancata decisione proprio su Uber: non più il servizio Pop, scomparso dall’offerta perché dichiarato illegale, ma anche quello degli NCC, il noleggio con conducente. La discussione verte da anni (!) sull’obbligo o meno del ritorno in rimessa al termine di ogni corsa: gli NCC tradizionali lo fanno, Uber no, essendo gestita via App. Alla fine del 2016, con il decreto Milleproroghe poi trasformato in legge, il governo allungò fino al 31 dicembre 2017 il tempo di transizione in cui non sarebbe stato considerato illegale il mancato ritorno in rimessa, legalizzando cioè temporalmente Uber.
Provare a leggere il testo del provvedimento, peraltro, è operazione pressoché impossibile: il che parzialmente spiega perché in Italia è così difficile avere chiarezza normativa.
Per aggiungere un pizzico di surrealtà, la nuova legge sulla concorrenza, varata i primi di agosto dopo una gestazione di oltre due anni, ha dato al governo un anno per rivedere la normativa in tema di mobilità (la legge che regolamenta i taxi risale al 1992, quando Internet non era nemmeno nei sogni). Peccato che non se ne sia fatto nulla: ora la legislatura è al termine e le priorità sono altre. L’unica novità che potrebbe esserci entro fine anno, insomma, è una ulteriore proroga.
Ma decidere di non decidere, mentre altri attori arrivano sul mercato complicando ulteriormente il quadro, è francamente una scelte perdente.
Leggi l’articolo completo su
Ultima modifica: 28 Marzo 2018