Il libro “LAVORETTI – Cosi la sharing economy ci rende più poveri” del Professor Riccardo Staglianò, racconta minuziosamente il progressivo svuotamento del mondo del lavoro dettato dall’inesorabile avanzare della modaiola gig-economy. Un declino che passa da delocalizzazione, contratti atipici ed automazione fino ai cosiddetti “lavoretti”. Lavoretti che un tempo servivano ai giovani per arrotondare o per fare esperienza, ma che con il tempo attraverso il demone della idealizzata flessibilità, sono stati istituzionalizzati ed elevati a forma lavorativa di eccellenza,distruggendo il tessuto della società sotto numerosi profili. Un’opera lenta ed inesorabile voluta e programmata dalle più grosse Companies che hanno costruito il loro successo tramite mosse discutibili e l’appoggio dell’alta finanza. Questi modelli sono stati poi instillati nelle arterie della collettività da strategie comunicative tanto aggressive quanto efficaci. Il tutto promosso a livello mediatico attraverso campagne di marketing capziose, che con il tempo hanno convinto la maggior parte delle persone che si trattasse del miglior mondo possibile. In realtà, si è trattato solamente di un salto indietro nel tempo, un ritorno al cottimo ed alla distruzione delle più basilari tutele del lavoratore.
Il testo illustra in maniera eccellente ogni aspetto della sharing economy aprendo gli occhi su fenomeni drammaticamente distruttivi che coinvolgono la vita di tutti noi. Attraverso l’analisi dell’evoluzione di compagnie come Uber ed AirBnB, l’autore effettua un’analisi socio-economica approfondita, utile a comprendere il funzionamento strangolatorio di queste piattaforme. Inoltre vengono sottolineati numerosi risvolti psicologici da non sottovalutare, che arricchiscono in negativo il panorama già di per se desolante.
Il primo capitolo del libro, dedicato ad Uber, svela la raccapricciante realtà celata dietro il finto alone di rinnovamento che gli ha permesso di affermarsi. È nostro intento, in questo momento storico cosi delicato in cui le multinazionali del settore tentano di usurpare l’ultimo briciolo di dignità lavorativa attraverso assalti continui, accendere nuovamente l’attenzione pubblica sugli aspetti più inquietanti e negativi di questo universo, sperando in una ritrovata consapevolezza da parte di lavoratori ed utenza.
Nello scenario europeo fortunatamente, la dimensione “sharing” del servizio dopo alcuni tentativi infruttuosi (Uber-pop) non ha preso piede, lasciando però spazio alla piattaforma di intermediazione per gli autisti di noleggio con conducente e in alcuni casi taxi, che presenta tuttavia simili caratteristiche.
Il capitolo dedicato alla app californiana, si apre con la descrizione di un evento emblematico in riferimento alle contraddizioni dei nostri tempi, accaduto ad una driver di Lyft, concorrente statunitense di Uber. Mary Jay Clarence Cabarle, driver di comprovata esperienza, decide di lavorare fino al nono mese di gravidanza e di accettare una corsa mentre si stava recando al pronto soccorso per dare alla luce la sua bambina. La neonata, diventerà protagonista di una campagna pubblicitaria piuttosto deprimente dal titolo “Little Miss Lyft”. Ebbene si, trattandosi di una corsa breve, la driver nonostante le contrazioni, ha deciso di deviare il suo percorso portando a termine l’ultimo servizio prima di recarsi in ospedale. Lyft con la sua campagna pubblicitaria intendeva celebrare una impiegata modello, eppure queste strategie comunicative non fanno che confermare quanto detto nelle considerazioni iniziali. Lo sconfortante scenario moderno di chi come Mary Jay “si affatica a sopravvivere tanto da dimenticarsi come si fa a vivere”, emerge con tutta la sua forza ricordandoci che queste piattaforme di intermediazione chiedono una continua disponibilità trascinando i malcapitati in un vortice senza fine dove non si ha un attimo per respirare, barcamenandosi tra le commissioni esagerate e le inesistenti tutele sociali. L’autore dinanzi a tale desolazione si chiede: “Cosa ha spinto tutti ad avere il bisogno di arrotondare? Cosa si è rotto nella società per far si che il lavoro principale di una persona non basti più a sopravvivere?”. Dietro c’è la demolizione di diritti e conquiste sociali, nonché una precisa volontà di trasformare la vita di tutti in qualcosa di diverso, lontano dagli affetti e dal poco tempo libero che ci è rimasto.
L’autore poi passa a descrivere la storia del fondatore di Uber: Travis Kalanick. Un ragazzo con un background simile a quello di Bill Gates, che abbandona l’università di Harvard per gettarsi nella giungla imprenditoriale attraverso un programma per lo scambio privato di file e guadagnandosi una sonora multa da 250 milioni di dollari. Di questa multa non pagherà nulla dichiarando bancarotta, dimostrando la sua sfrontatezza. L’idea di dar vita ad Uber nasce a Parigi quando una sera Kalanick, cerca di fermare un taxi con un cenno per strada, come usualmente faceva a New York, non riuscendo nell’intento. Da lì il passo è breve nel concepire una app dove basta un click per avere un’autista a disposizione.
Il 2010 è l’anno di nascita di Uber, la startup più ricca di sempre che colleziona una serie di sospetti finanziamenti fino ad arrivare alla cifra esorbitante di 16 miliardi di dollari. Il mantra è spietato: prima pensare a crescere e poi generare profitto. Tale mantra, tuttora esistente, è l’emblema di questo sistema distruttivo. Forbes, rivista ultra-liberista mette Travis in copertina classificando la sua azienda come il “terzo datore di lavoro al mondo”. Ma il tilt è proprio questo: Uber non è un datore di lavoro, chi sbarca il lunario guidando giorno e notte non è un dipendente di fatto. Si è tornati indietro di secoli ad un sistema a cottimo senza diritti che la gig-economy ha riproposto ed infiocchettato dietro astuti spot.
Il Professor Staglianò sottolinea come nessuno si indigni dinanzi alla terminologia “economia della condivisione” che in realtà sarebbe solamente “platform capitalism” o “gig economy”. La dimensione di “condivisione” quasi di ispirazione cristiana, dal richiamo caritatevole ed altruista non fa altro che nascondere una povera realtà primitiva. Da questo punto è partito un carrozzone mediatico studiato a tavolino atto a sostenere il “consumo collaborativo” come idea che cambierà il mondo, sostenuto dalle più famose riviste. L’apice è rappresentato dall’idea secondo cui in un mondo dove non conosciamo i nostri vicini di casa, “condividere consente di stabilire delle connessioni significative”. Possiamo arrivare a fidarci ciecamente di uno sconosciuto dormendo nella sua casa con Airbnb o stando nella sua vettura con Uber, perché sentiamo un feeling. Insomma la sharing-economy è stata sospinta in maniera scientifica poiché giusta, efficiente ed eco-friendly, mentre fa solo il gioco delle grandi aziende e non del lavoratore.
In fondo lo schema Uber, valido sia in ottica sharing che non, è chiaro: da una parte c’è l’autista, chiamato elegantemente “partner”, che mette mezzo di produzione (auto) con tutto il resto (benzina, assicurazione etc.). I rischi imprenditoriali? Sono sempre del “partner”, costretto ad attendere ore per una corsa o fronteggiare potenziali incidenti. Queste cose non sono affare di Uber, che dall’altra parte invece, mette solo a disposizione una app che ti rende parte integrante del proprio nodo commerciale. Per questa mera intermediazione nel 2015 intascava una commissione del 20% su ogni corsa per poi arrivare al 25%. Inizialmente molti hanno ritenuto l’accordo vantaggioso, ma dopo un anno solo il 4% degli autisti ha continuato ad utilizzare Uber. Ma non c’è problema per l’azienda poiché gli animali da macello della gig-economy sono tanti e sempre a disposizione per un ricambio.
L’autore poi sviscera la strategia predatoria della multinazionale, che come fece Amazon, ha accettato e tuttora accetta di avere profitti al limite dell’invisibile al fine di crescere ottenendo il monopolio. Come è stato possibile questo? Attraverso promesse irrealizzabili agli autisti di guadagni stratosferici, inganni pubblicitari e continue iniezioni di denaro dei finanziatori che hanno permesso di continuare questa impresa diabolica. All’inizio Kalanick ha imposto una tariffa di 2,75 Dollari per miglio, con una media oraria di 15-20 dollari per gli autisti. Dopo è sopraggiunta Lyft, che l’ha addirittura dimezzata. Questo gioco al massacro connesso alle promesse di guadagno non più sostenibili, è costato caro ad Uber che ha rimediato una sanzione di 20 milioni di Dollari in merito e che ha pagato senza battere ciglio. Ciò ha lasciato ulteriormente intendere la potenza di un consolidato network imprenditoriale spietato.
Spietato è riduttivo, poiché Kalanick, intervistato da Recode sull’ipotesi futuristica di auto senza pilota aveva dichiarato che i prezzi di Uber non erano ancora sufficientemente bassi a causa “dell’altro tipo nell’auto”. Così come per ottenere i fantomatici guadagni promessi, un driver avrebbe dovuto tecnicamente guidare 12 ore al giorno per 365 giorni l’anno.
Ma gli autisti di Uber oltre a dover fronteggiare la minaccia futuristica di “macchine robot” devono preoccuparsi ancor di più dei dilemmi legati alle tariffe. “Bloomberg” ha effettuato una analisi sul peggioramento progressivo delle condizioni lavorative dei driver, citando casi emblematici: si pensi ad un autista dell’Indiana, il Sig.Howard, che rappresenta una folta schiera di persone che pur di sfruttare l’impennata dei prezzi nelle ore di punta si è trovato a vivere nella propria auto nel parcheggio di un supermercato, dormendo nella vettura. C’è inoltre chi sceglie di lavorare in un’altra città dove gli affari sono migliori: come il Sig.Tugas che vive a Sacramento ma lavora a San Francisco a 150 km di distanza, e deve stare in macchina più di 70 ore a settimana. Il progressivo abbassamento delle tariffe ha costretto questi driver a tenere ritmi forsennati, il tutto è stato peggiorato dall’arrivo di Uberpool, che consente a più clienti di dividere il costo della corsa con il relativo abbassamento di guadagno per l’autista. Questi perversi sviluppi, non consentono a chi lavora con Uber di rientrare degli investimenti fatti e costringono a superare i propri limiti per estinguere i propri debiti, ponendo numerosi dubbi connessi alla sicurezza. Ma Uber dice che “la gente prende le proprie decisioni su quando, dove e quanto a lungo guidare” scaricando vergognosamente ogni responsabilità sui partners di lavoro. Inoltre, Uber adotta una serie di strategie atte a far rimanere più autisti per strada e più a lungo, oltre ogni limite umano, facendo comparire messaggi sull’app relativi a bonus e premi economici nel caso di accettazione di corse, proprio quando l’autista cerca di effettuare il logoff.
Queste problematiche sono poi culminate nell’episodio più tristemente celebre: la sera in cui Kalanick perse la testa e fu immortalato. Non troppo tempo dopo che una dozzina di dirigenti avevano abbandonato Uber (anche per scandali sessuali) ed in seguito ad una pagina oscura relativa all’acquisizione di dati sulla guida autonoma, Kalanick si è ritrovato nel mezzo di una tempesta mediatica non da poco.
La sera del super-bowl nel febbraio 2017, Kalanick è salito su un Uber Black, ed ha avuto una discussione con il driver, che aveva fatto candidamente notare che il progressivo abbassamento delle tariffe lo aveva ridotto alla fame, coprendolo di debiti per la sua auto da 97.000 Dollari.
Travis, perse la testa, rispondendo: “Sai quale è il problema di molte persone? Che danno sempre la colpa a qualcun altro per i propri fallimenti. Non sanno prendersi le loro responsabilità. Buona fortuna!”. Peccato che il conducente avesse registrato tutto tramite la sua dash-cam, per poi inviare tutto ai media.
Questo è stato l’epilogo per Travis Kalanick che era sul punto di disintegrare la sua stessa creatura. In seguito a questioni personali e scelte del Consiglio di Amministrazione, è stato costretto ad abbandonare la nave.
Qui si conclude l’excursus del testo, con la fine dell’epoca Kalanick. Successivamente il timone è passato a Dara Khosrowshahi, ex CEO di Expedia, uomo molto vicino al Partito Democratico e businessman di rilievo. La costante però è la stessa, Uber ha continuato ad esprimersi come una multinazionale forte e spietata, a suon di acquisizioni ed accordi economici monstre. Ma altra costante senza dubbio avvilente è la continua trafila di scandali, polemiche e questioni insolute sui diritti dei lavoratori in tutto il mondo.
Non interessa che l’indebitamento miliardario dell’azienda sia costante nel tempo, non interessa che il meccanismo del surge-pricing (prezzo dinamico su algoritmo, che cresce al crescere della domanda) continui a vessare l’utenza, non interessano i danni che le metropoli stanno subendo in termini di aumento di traffico ed inquinamento. L’obiettivo di Uber è uno solamente: ottenere il monopolio del trasporto di persone “whatever it takes” (ad ogni costo), direbbe qualcuno.
R. Staglianò, LAVORETTI – Cosi la sharing economy ci rende tutti più poveri
CASA EDITRICE EINAUDI – Dicembre 2018
LINK ALL’ E-BOOK: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/storia/lavoretti-riccardo-stagliano-9788858427774/
Considerazioni e sintesi Capitolo I : “Uber”
Per UFFICIO STUDI URITAXI, a cura di Ivo Speziali
Ultima modifica: 12 Novembre 2021