Non sappiamo come finirà la partita trai taxistie Uber, ma un’ altra disputa, quella con il fisco, alla fine i
taxisti l’hanno vinta. È di qualche settimana fa la sentenza 954/2016 della Cassazione, che in qualche
modo dovrebbe porre fine alla lunga querelle che- per circa dieci anni- ha visto contrapposte le auto
bianche all’agenzia delle Entrate. Era infatti il 2005 quando l’amministrazione finanziaria iniziò ad accertare
maggiori redditi nei confronti di coloro che avevano cessato l’attività del servizio di taxi e cedevano la
relativa licenza.
Più precisamente, secondo la tesi erariale, le somme percepite in seguito al trasferimento
della licenza dovevano essere tassate, in quanto si trattava di un’indennità per mancati guadagni futuri in
base all’articolo 17, comma 1, lettera i), del Tuir, con il conseguente recupero di imposte dirette, oltre
interessi e sanzioni, nei confronti di tutti coloro che invece avevano ritenuto non assoggettabilia imposte
queste somme. Secondo la categoria, infatti, questi importi non andavano tassati per una serie di ragioni.
Innanzitutto perché la licenza per l’esercizio del servizio pubblico taxi non poteva qualificarsi come un bene
relativo all’impresa: non si trattava di un bene immateriale nella piena disponibilità del tassista. Essa, infatti,
appartiene al Comune che l’ha rilasciata e solo in presenza di specifiche situazioni è possibile trasferirla ad
un terzo.
Ne consegue così che in assenza di un diretto legame con l’impresa, il provento, secondoi taxisti,
non poteva qualificarsi ricavo, né plusvalenza, né sopravvenienza e quindi non andava tassato. Secondo la
tesi degli uffici, invece, le somme percepite dalla cessione della licenza di tassista, rappresentavano
un’indennità per la perdita di futuri redditi di impresa e conseguentemente dovevano essere tassate. Vale la
pena di ricordare che le indennità ai fini della loro imponibilità, devono «sostituire» o «risarcire» un reddito
persoe quindi, secondo le previsioni del Tuir, vanno tassate nella categoria reddituale di riferimento. Così il
fisco ha effettuato numerosi accertamenti, molti dei quali in via prudenziale definiti dai tassisti in adesione
o in conciliazione/mediazione, trovando così un accordo su quanto pagare e beneficiando delle sanzioni
ridotte.
In passato la Cassazione (sentenza 16836/2014) aveva dichiarato la nullità di un accertamento
poiché su un’asserita plusvalenza derivante dalla cessione della licenza di taxi, non precisava a quale
ipotesi di reddito fosse riconducibile, non qualificava l’oggetto del negozio o anche la natura dell’attività, se
autonomao subordinata, del contribuente. Nella specie, l’ufficio si era limitatoa una sintetica motivazione,
che la Suprema corte ha ritenuto «evidentemente non congrua». Mancava, poi, una concreta qualificazione
del negozio, poiché non era precisato se questa cessione configurasse una cessione di azienda o
comunque fosse da ricondurre ai redditi di impresa. Non erano poi indicati i criteri utilizzati per il calcolo
dell’asserita plusvalenza.
Qualche settimana fa la definitiva conferma: secondo la Suprema corte (sentenza
954/2016) l’amministrazione, per ritenere tassabili le somme, deve rispettare un preciso obbligo di
motivazione. I giudici di legittimità hanno così rilevato che gli accertamenti emessi dall’Agenzia si sono
limitati a qualificare tali somme come indennità, senza indicare però la categoria reddituale di riferimento.
Da qui la nullità della pretesa del fisco e la definitiva “vittoria” del tassista che ha “resistito”.
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Ultima modifica: 15 Febbraio 2016