“Quando non capisci, a qualcuno conviene”: un vecchio motto, da non trascurare mai. Nemmeno a proposito della cosiddetta “sharing economy”, il “new deal” di alcuni nuovi operatori dell’economa digitale che stanno smontando dall’esterno interi “pezzi” del business tradizionale per appropriarsene demolendo una buona metà del valore preesistente, accaparrandosene l’altra metà e lasciando gli utilizzatori mediamente contenti e i fornitori in braghe di tela. E’ il caso di Uber, la formula anti-taxi che sta spopolando negli Stati Uniti e che invece pian piano la vecchia Europa sta mettendo al bando (ieri la decisione della Francia). Qual è il punto? Il punto è che Uber sfrutta un principio più che geniale assai logico (che è meglio!) secondo cui chi viaggi in macchina da solo può avere convenienza a dare un passaggio a qualcuno che gli paghi la benzina. E fin qui si capisce tutto.
Ma Uber pretende anche – e qui è il guaio – di ricavare da questo logico presupposto due conseguenze assai meno logiche e quindi difficilissime da capire: innanzitutto, che il servizio sia efficiente quanto e più dei taxi normali, con tutta l’organizzazione “di garanzia” che la cosa comporta ma che a sua volta comporta l’assunzione di obblighi precisi da parte della “rete” degli autotrasportatori a vantaggio degli utenti; e poi che chi tiene la regia dell’organizzazione ci guadagni, e tanto. La solita cosiddetta alta finanza di Wall Street (gli analisti, perché Uber fortunatamente non è ancora quotata) dominata per un 10 per cento da una cupola di imbroglioni in grisaglia e per il 90 da un esercito di gonzi assatanati dall’opportunità di guadagnare un botto senza fatica (gli stessi che come diceva Galbraith periodicamente la Borsa stessa provvede ad alleggerire del loro denaro) ha già deciso che Uber varrà, una volta al listino, il triplo di Fiat Chrysler Automobiles. E vabbe’.
Ma qual è il punto? Il punto è che ormai chi aderisce a Uber per prestare la sua opera viene trattato con gli obblighi e addirittura le imposizioni di un lavoratore dipendente senza averne alcuno dei vantaggi e a fronte di una paga da fame. Altro che sharing economy, pura speculazione da padroni delle ferriere ottocenteschi. Com’è possibile? Lo è, eccome.
Perché il giochino funziona se a prestare l’opera è un giovanotto di buona famiglia, proprietario di auto, per un paio di mesi d’estate tra un anno e l’altro dell’università. Altro è se per fare l’autista-Uber il malcapitato s’indebita per comprare un’auto e ritiene di poterci ricavare di che vivere con la famiglia. Morirà di fame, ma questo Uber non glielo dice, prima. E così i medesimi malcapitati si ritrovano a fare i doppi e tripli turni sforzandosi anche di sorridere ai clienti che se no gli danno un brutto voto e l’organizzazione può espellerli dal giro.
No, per favore: non serviva Internet per ripristinare lavoro nero e para-schiavitù. Bastavano i padroni delle ferriere di fine Ottocento.
Leggi l’articolo completo su Affari Italiani a questo indirizzo
Ultima modifica: 14 Gennaio 2015